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EMDR - CASI CLINICI

Da "Traumi psicologici, ferite dell'anima" di Fernandez-Maslovaric-Galvagni

"Sono passati 15 lunghi anni da quella giornata infernale, ma mi ricordo tutto, proprio tutto come se fosse successo ieri. Si avvicinava il Natale, io avevo 10 anni e stavo incartando i regali di Natale con mia nonna. Il telefono ha iniziato a squillare, mia nonna ha risposto e immediatamente mi sono accorta che stava succedendo qualcosa di terribile. Non erano le parole di mia nonna a dirmelo, era il suo silenzio e l'espressione più cupa che io abbia mai visto dipinta in viso. Dopo pochi istanti la telefonata termina e io le vado incontro chiedendole: "nonna è successo qualcosa"?"

Non dimenticherà mai i suoi occhi pieni di lacrime, il terrore nel suo sguardo...Mi ha stretto a sè dicendomi: "Chiara il papà ha fatto un incidente..." Io scoppio a piangere e inizio a urlare: "Sta bene vero" Dimmi che sta bene!". Cercando di calmarmi, mia nonna mi risponde: "E' grave, si trova in ospedale ma ancora non possiamo andare a trovarlo". Non sono mai andata a trovarlo, mio padre in ospedale non ci arrivò vivo. Non ho mai perdonato il fatto che per giorni mi abbiano nascosto la verità. Non ho mai perdonato il fatto che non mi abbiano permesso di salutare per l'ultima volta mio padre all'obitorio. Ero una bambina ma quello era il mio papà e avevo diritto di sapere. Ogni volta che squilla il telefono io sussulto ancora. Il cuore mi batte forte per attimi infinitamente lunghi. Mi aspetto sempre un'altra tragica notizia".
(Chiara, 25 anni, "odia" ancora il Natale)


L'Aquila, 6 Aprile 2009, ore 3,32
La terra trema. Michela si sveglia, un boato entra nelle sue orecchie e scorre nelle sue vene. I calcinacci cadono sul letto, i cassetti si aprono, la porta della camera cambia forma. Silvia, la sua bambina di 7 mesi, piange nella sua cameretta. Giuseppe, il marito di Michela, corre nella stanza a prendere la figlia. Michela no, non riesce a muovere un dito, non riesce ad urlare, non riesce a pensare, è totalmente e letteralmente pietrificata dalla paura. Successivamente la famiglia di Michela è stata ospite in un albergo sulla costa abbruzzese in attesa di avere notizie sull'eventuale ricostruzione della propria casa. Tutta la famiglia si è salvata. Solo qualche ferita superficiale ma nessuna conseguenza medica importante. Michela però continuava a ripetere a tutti e a ripetersi che non aveva fatto abbastanza. Il 27 Aprile, quando abbiamo parlato con Michela, il suo senso di colpa la divorava, non riusciva a dormire, faticava a mangiare e tutto quello che riusciva a dire piangendo erano queste parole: "La mia bambina, non ho fatto nulla per la mia bambina, sono una mamma terribile, sarebbe stata tutta colpa mia se fosse successo qualcosa, non me lo perdonerà mai, non sono riuscita a salvare mia figlia, a stringerla tra le mie braccia in quei secondi interminabili di paura".

La vicenda di Michela rientra chiaramente nella specificità di un evento importante e particolarmente drammatico. In questo caso il senso di colpa è innescato dai tentativi razionali di Michela di spiegare una reazione guidata dall'istinto e legata alla sopravvivenza. Quando ci troviamo di fronte ad una minaccia potenzialmente mortale possiamo reagire con la fuga, con l'attacco e con il congelamento(flight, fight e freeze). In questo caso l'istinto di Michela ha optato per il freeze, e quindi per l'immobilizzazione. In un certo senso è come se il suo cervello avesse fatto, in modo del tutto inconsapevole, una istantanea analisi della situazione: troppo minacciosa per poter lottare, troppo pericolo per riuscire a scappare. Non rimane che bloccarsi fino a che nuovi elementi percettivi permetteranno una diversa analisi della situazione ed una nuova possibile reazione (che poi in effetti è avvenuta con la fuga di tutta la fam iglia dalla casa, Michela compresa).

Le reazioni di sopravvivenza sono legate all'istinto e non possono essere veicolate dall'intenzionalità. Michela invece tenta di spiegare razionalmente quanto è accaduto, arrivando alla conclusione che, se non è riuscita a correre subito nella stanza della figlia, allora è una cattiva mamma. Talvolta un'informazione mancante può sbloccare un circolo vizioso. In questo caso Michela si è sentita sollevata quando uno psicologo, con approccio EMDR, le ha spiegato che in realtà non è stata "Michela mamma" a scegliere di immobilizzarsi, ma il suo istinto di sopravvivenza, che -in effetti- poi ha salvato sia lei stessa che la sua bambina.


           

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